Neorealismo e dintorni

De Sica, il finto film e gli Ebrei salvati

 

Organizzò le riprese della pellicola per proteggere uomini e donne braccati dai Nazisti

 

Alberto Melloni, Corriere della Sera, 18 novembre 2008

 

Sembra una favola. Forse è una favola, La porta del cielo. Una storia incantata, incantevole con personaggi usciti direttamente e non metaforicamente dal cinema in bianco e nero. Un apologo triste, dove quelli per cui va a finir bene raccontano una storia a lieto fine ad interlocutori che non ci sono più, perché loro - nella macabra contabilità dei deportati - fanno parte di quei convogli che, dopo la razzia del 16 ottobre 1943, portarono da Roma ad Auschwitz gli ebrei del ghetto. Chi la racconta, questa favola, non è una firma prevedibile. Perché a Christian De Sica si possono riconoscere tante cose, ma la qualifica di narratore autobiografico che si guadagna con Figlio di papà (Mondadori, pp. 270, 18) è davvero nuova. È in questo volume che il figlio di Vittorio De Sica evoca in un capitolo stupendamente dolceamaro la vicenda che attraversa su un filo di commedia l' abisso della Shoah romana e che ha al centro un film con quel titolo, La porta del cielo, che avrebbe dovuto illustrare i miracoli di Lourdes avendo come attrice principale la bellezza raffinata di Maria Mercader e come regista l' improbabile camerata Pratelli. Mentre in Vaticano si ragiona su quel film - un' opera finalmente edificante, che alimenta la devozione e la fede - i gerarchi sono all' opera per convincere i registi e gli attori a concentrarsi a Venezia, per offrire alla Repubblica sociale la propaganda di cui essa ha bisogno e che crede ancora efficace, dopo l' 8 settembre. Anche Vittorio De Sica è nella lista dei trasferendi: lo stesso Goebbels e il suo corrispettivo italiano, Mezzasoma, si incaricano di arruolarlo per una leva alla quale non ci si può sottrarre, se non pagando con la vita. E De Sica, messo spalle al muro dalla «offerta» di lavoro, s' inventa su due piedi una causa di forza maggiore che gli permetta di uscire vivo dal pasticcio: dice che è già stato scritturato per La porta del cielo - di cui è stata scelta come protagonista l' amatissima amante che frequenta dietro l' esile paravento dell' Hotel Boston - direttamente dal Papa. Tutto falso, naturalmente. Talmente falso che solo l' abile capricciosità di Maria Mercader riesce a farlo diventar vero. Maria pretende e ottiene dal responsabile del progetto, il sostituto Giovan Battista Montini, che De Sica venga effettivamente scritturato come regista. A sua volta De Sica pretende e ottiene che lo sceneggiatore sia Cesare Zavattini che con Adolfo Franci e Diego Fabbri scrive un film nel quale il miracolo, che avrebbe dovuto estasiare le folle cattoliche, semplicemente non c' era più, o meglio era diventato un altro. Il miracolo cioè di fare della basilica di San Paolo fuori le Mura, la zona del quartiere Ostiense che era ed è territorio Vaticano, una grande arca di salvezza per centinaia di persone braccate dalla Gestapo: ebrei sfuggiti alla razzia del 16 ottobre, militanti comunisti, aspiranti partigiani, uomini della Resistenza. Tutti imbarcati da De Sica per un film che portò lo scompiglio pratico e morale nell' austero chiostro benedettino, piegato dai nuovi saltimbanchi del cinema ad una inedita versione del diritto d' asilo. La porta del cielo diventò così, fino all' arrivo degli americani, una porta della terra. Uno dei tanti racconti che la generazione di noi che non siamo più ragazzi abbiamo sentito raccontare fin da quando eravamo piccoli: storie di estro e dignità, favole di un mondo che s' allontana, mescolando torti e ragioni nel più furbo dei colori, il grigio. E che in un film mai girato, nelle parole di Christian De Sica, ritrova il bianco, ritrova il nero.