Francesco De Robertis nasce in provincia di Foggia nel 1902.
Ufficiale della Marina militare, approda al cinema nel 1941 con la
sua prima
opera Uomini sul fondo. Nasce
così il neorealismo cinematografico, un neorealismo in anticipo sui
tempi e precursore di quel genere che troverà l’apice della propria
affermazione negli anni successivi, per mano anche di altri grandi
cineasti, con cui spesso lo stesso De Robertis aveva collaborato.
La carriera di De Robertis prosegue lungo gli anni Quaranta con
titoli importanti come Carica eroica, Alfa Tau, Il mulatto… e ancora
negli anni Cinquanta, quando il genere neorealista comincia a
mostrare i primi segni di declino.
Profondamente influenzato dalla professione di comandante di marina,
il cinema di De Robertis ha saputo riflettere egregiamente il
delicato rapporto tra finzione e realtà , che sempre rappresenta uno
dei contenuti più affascinanti dell’opera d’arte in generale, e
costituisce a tutt’oggi una testimonianza di importanza non soltanto
artistica, ma anche culturale e storica, che merita attenzione e
memoria e che, alla luce dell’argomento trattato in questo numero,
riteniamo imprescindibile.
Prematuramente scomparso nel 1959, Francesco De Robertis ci ha
lasciato il rimpianto di una carriera troppo breve in ricordo di sé,
ed è oggi dalle parole della figlia Daniela nell’intervista che
segue che cerchiamo di offrire un ritratto capace di farci conoscere
meglio uno dei “mattoni” del cinema italiano.
Domanda: Che cosa ha spinto suo padre a diventare regista. Qual è il
percorso formativo che lo ha portato nel 1941, all’età di 39 anni, a
realizzare la sua prima opera?
Penso che dobbiamo partire dall’ambiente professionale in cui si
muoveva mio padre, l’ambiente della Marina. Qui è condensata un po’
tutta la storia, una storia che lo ha portato ad essere ufficiale di
Marina: entra in Accademia a 6 anni, a quei tempi era molto precoce
l’inizio della formazione, e ne esce a 19 come guardiamarina, un
impegno praticamente full-time, perché essere ufficiale di Marina
comporta lo stare lunghi mesi per mare sulla nave, cioè lavorare a
tempo pieno, avere un contato diretto, prolungato, continuativo con
la professionalità ma anche con l’equipaggio, quindi con una serie
di persone rispetto a cui si è responsabili in qualità di
comandante. In questo contesto professionale e operativo si innesta
la passione che mio padre aveva per la fotografia. Quindi il suo
cinema, la sua vocazione alla macchina da presa, ha un antenato che
è la macchina fotografica.
Mio padre era un appassionato di fotografia e c’è dunque un
passaggio dalla fotografia alla cinepresa: questo passaggio si
consuma prima sotto forma di documentari e in questi filmati non
sono presenti storie, sono semplicemente la presa diretta di quello
che accade nella realtà . Questa la radice “realista” delle sue
creazioni artistiche. Ora questo primo passo, che è appunto la
documentazione filmata, propedeutica poi al film, è reso possibile
dal contesto professionale in cui opera mio padre. In poche parole
non è un cineamatore, ma è un ufficiale di Marina che registra e
filma i documentari per la Marina. Quindi la Marina come
“committenza” e al tempo stesso come naturale contesto di lavoro,
gli consentiva di rendere operativa la sua passione. Come avrebbe
potuto fare un documentario di questo tipo un civile? E questa credo
sia stata l’accoppiata vincente rispetto ad un suo intento, a un suo
chiamiamolo hobby, una sua passione, una sua versatilità .
Dal documentario passiamo poi al film;la disponibilità di mettere in
scena, filmare, pezzi di vita vissuta, vita pratica, non inventati,
ma ricalcati su un contesto tanto vivo quanto vero, ancora una volta
glielo dà la Marina o meglio l’ambiente della nave, gli abitanti
della nave che sono i marinai. Quindi anche qui si crea una
saldatura tra la sua professionalità , il suo essere ufficiale di
Marina e comandante della nave con i suoi collaboratori, di vario
rango e gerarchia, e la possibilità di portarli tutti dentro la
cinepresa; e quindi il film diventa sì un racconto di storie, ma di
storie vere, la cui verità è filtrata proprio dalla sua
autobiografia. C’è quindi una matrice spiccatamente biografica che
permette a De Robertis di essere realista o neorealista.
Domanda: La critica è pressoché unanime nel considerare Uomini sul
fondo del 1941 l’opera più completa di Francesco De Robertis, ma
sappiamo anche che spesso la critica tende a relegare riduttivamente
un artista in un’opera. Qual era allora per Francesco De Robertis il
suo film che meglio lo rappresentava, quello a cui si sentiva
emotivamente più legato?
So che mio padre diceva che in Uomini sul fondo c’è una scrittura
d’immagini, una scrittura filmica, soprattutto di montaggio che più
preferiva, però anche opere minori dal punto di vista della critica,
ma non minori come successo o cassetta, Carica eroica ad esempio,
hanno un nucleo ed un montaggio molto interessanti, anche se, a suo
giudizio, riteneva che tecnicamente Uomini sul fondo fosse il
migliore: probabilmente è un’opera molto pregnante perché più
patetica; c’è proprio un pathos che è dovuto al collocarsi “sul
fondo”, una dimensione di sopravvivenza, di chiusura, fatto che
segna la profonda differenza tra un sommergibile ed una nave, e
questa accezione patetica è denunciata e contenuta nel titolo stesso
del film. Passionalmente mio padre era molto legato a Il mulatto,
per esempio, che è un’opera decisamente minimalista, costruita su
piccoli affetti, ma amava molto soprattutto Alfa Tau , almeno da
come ne parlava, suppongo che questa affezione fosse legata al
significato del codice “alfa tau”, un alfabeto usato in marina, da
lui vissuto senz’altro con un significato simbolico.
Domanda: Il cinema neorealista è perlopiù considerato ai giorni
nostri come un genere fortemente contrassegnato da una marcata
componente “sociale”, un cinema del dopoguerra alla Roma città
aperta, tanto per intenderci. Che significato aveva invece il
“neorealismo” per Francesco De Robertis, che di questo genere è
stato pioniere, addirittura prima di Visconti, Blasetti, De Sica e
Rossellini?
È giusto dire che cosa era per lui neorealismo perché credo che
ciascuno poi vive, si inventa, si fonda, si anima il “suo”
neorealismo, perché c‘è un neorealismo di De Robertis, uno di
Visconti, uno di De Sica e così via, perciò usciamo anche da una
categoria omnicomprensiva sicuramente riduzionista che non
renderebbe ragione della personale estetica e poetica di ciascun
regista, per cui credo sia più rispettoso parlare di cosa il regista
intendesse, implicitamente o esplicitamente, nello sviluppare questo
tema: il “suo” neorealismo.
A questo proposito la componente neorealista di mio padre non era
orientata verso dei fini di tipo sociale o politico, non aveva,
almeno prioritariamente, un obiettivo compartecipato inserito
appunto in un discorso di critica sociale e politica, ma credo che
la sua fosse una dimensione molto più individualistica, sviluppata
all’interno di una sua biografia, legata alla volontà di trasmettere
il suo mondo reale ed esperenziale, un mondo fatto appunto di
marinai, di navi, di viaggi per l’oceano, di approdi e permanenze
nei porti del mondo, un mondo fatto di persone concrete, di luoghi
concreti e reali in quanto facenti parte di esperienze reali.
Ometterei da questo contesto un intento più politico.
Domanda: Quali erano le qualità umane di Francesco De Robertis che
più si riflettevano sulla sua attività professionale di regista
attento alle problematiche di un periodo storico difficile e così
lacerante per il nostro paese come i primi anni quaranta?
Gli aspetti così difficili e laceranti del biennio 1943-1945
sicuramente coinvolgono mio padre nella sua storia personale perché
proprio in quegli anni, precisamente nel 1943, mio padre lascia la
Marina, va in congedo e abbandona la carriera militare proprio in un
periodo così drammatico, perché è chiaro che certi eventi politici
devono avere messo in discussione certe sue adesioni professionali,
intendo il suo ruolo di ufficiale di marina, nelle quali aveva
creduto fino ad allora.
Quindi, dato per scontato che le esperienze storiche lo toccano,
ritengo che la sua risposta a questi eventi così dilaceranti nella
nostra storia nazionale si sia tradotta in una sua ricerca, che ha
messo poi nei suoi film, di recupero di sentimenti, di valori, di
affetti umani , veri ed anche molto quotidiani, in un certo senso
molto piccoli ed allo stesso tempo molto grandi; ci sono infatti nei
film di mio padre elementi epici ed “affettuosi” ricorrenti, come
l’amore per la fidanzata, il ricordo della famiglia lontana, che poi
sono i vissuti dei marinai quando erano lontani da casa; ma anche il
sottolineare il tema dell’infanzia, la dimensione della vecchiaia,
la semplicità dei sentimenti, tutti temi che poi si condensano nel
titolo di un film La vita semplice; ecco quello era un suo anelito,
che domina la sua personalità artistica, ma anche un modo per un
recupero di valori che non solo il fascismo ma anche la
dilacerazione bellica stavano compromettendo. Quindi una sorta di
ricorso, più o meno salvifico, più o meno riequilibrante la perdita
di valori.
Domanda: Uno dei principali intenti di questa rivista è quello di
restituire memoria a storie e personaggi che crediamo lo meritino.
Ritiene che vada aggiunto qualche cosa oggi alla memoria di
Francesco De Robertis?
Mi fa piacere questa domanda e sono molto contenta di poter
rispondervi, perché la cosa che più mi preme è togliere a mio padre
un’etichetta politica che una critica di parte e non obiettiva ha
appiccicato a mio padre come regista all’insegna della propaganda di
regime. Non bisogna confondere chi a quei tempi era militare con chi
era fascista. Sono due cose completamente diverse. Mio padre entra
in Marina non perché è fascista ma perché all’età di 6 anni la sua
famiglia lo manda in Accademia, ed è chiaro che sia stato educato a
dei valori militari che nulla però hanno a che fare con i valori
fascisti. Tra l’altro credo sia molto ingiusto ed offensivo
etichettare in tal modo una persona che è stata fatta prigioniera
dai tedeschi e la reclusione per diversi mesi di De Robertis presso
le carceri di Castelfranco Emilia la dice lunga sull’assurdità di
presunte commistioni con il regime. Credo sia una beffa, una specie
di beffa storica dalla quale desidero mio padre esca e quindi vi
ringrazio molto per questa possibilità che mi date nel rispondervi.
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